L'uva nella tradizione ebraica - JoiMag

2022-09-03 01:59:24 By : Ms. LEO LI

La preminenza di questo frutto nell’immaginario religioso è confermata anche da un Midrash secondo il quale sarebbe stato un bel grappolo succoso e non una lucida mela il frutto dell’Albero della Conoscenza che Adamo ed Eva non avrebbero dovuto cogliere

Dell’uva non si butta via niente. Si potrebbe riassumere così la versatilità di questo frutto la cui storia coincide con quella dell’uomo. Presente nell’iconografia più antica, da quella egizia a quella ebraica, greca e romana, l’uva ricopre di volta in volta i ruoli più diversi, da quelli puramente alimentari a quelli simbolici. La sua capacità di adattarsi a occasioni e impieghi è davvero straordinaria. Si va dal consumo puro e semplice, come frutto fresco, a quello essiccato, dalla produzione di succo a quello dei suoi diretti derivati, ossia il mosto, il vino e l’aceto. Ci sono poi i vinaccioli, cioè i semi, utilizzati per estrarre l’olio, e le vinacce, ossia le bucce, sfruttate per la grappa, nonché le altre parti della pianta, prime tra tutte le foglie, utilizzate in gran parte del Mediterraneo e del Medio Oriente per realizzare involtini e fagottini farciti di carne o di riso.

La vastità di utilizzi di pianta e frutto, conosciuti e apprezzati dagli ebrei fin dagli albori della loro storia, ne ha certamente favorito il successo sul fronte simbolico. Ecco così che la vite compare tra le sette specie con cui è stata benedetta la Terra Promessa e che in Isaia 5.7 i figli di Israele sono paragonati a una vigna coltivata dal Signore. Secondo la Mishnah ci sarebbe stata una magnifica vite d’oro appesa sopra il portale interno del Secondo Tempio, mentre i grappoli erano tra i principali elementi decorativi dei pavimenti delle antiche sinagoghe. Una versione gigantesca di questo frutto compare in uno dei magnifici mosaici rinvenuti nella sinagoga di Huqoq, in Galilea, dove si vedono due uomini trasportare un immenso grappolo sorretto da un palo. Il riferimento è a quanto scritto nei Libro dei Numeri 13.23 e riguardante l’invio di Mosè di 12 meraglim, ossia di “spie”, in avanscoperta in Terra Santa e il loro rientro con questo carico: “Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi”. L’uva ricorre poi sulle prime monete greco-italiche ed ebraiche del V e IV secolo a.C. così come la vite, considerata un albero messianico, è spesso stata utilizzata per rappresentare la Torah e Gerusalemme, ricorrendo nelle decorazioni delle sinagoghe, spesso attorcigliata intorno a pilastri e colonne o ricamata sui paramenti sacri.

E poi c’è ovviamente il vino. Gran parte dei discorsi sull’uva finiscono inevitabilmente col trattare del suo derivato più diffuso e apprezzato. Pur desiderando concentrarsi qui sul frutto, non si può dimenticare che questo in passato veniva consumato in purezza solo occasionalmente, tanto più in versione fresca, limitata a un breve periodo dell’anno. Tutto il resto era finalizzato alla produzione della bevanda alcolica, in epoca biblica diffusa pare quanto l’acqua, e quel che veniva scartato finiva col produrre salse come l’agresto.

Questo condimento era conosciuto fin dall’epoca romana e diffuso come agente acidificante in tutte le zone europee in cui si praticava la viticoltura, dalla Spagna alla Francia, dall’Italia alla Grecia e come condimento in Persia, Turchia e Siria. Veniva prodotto con il succo dell’uva raccolta tra luglio e agosto in previsione della vendemmia vera e propria e troppo acerba per essere trasformata in vino. Ne manteneva il gusto acidulo, sfruttato per la preparazione di stufati, salse e sottaceti. Chiamato agraz in spagnolo e agra in ladino, era indicato in Italia anche come “aceto ebraico” e apprezzato in genere dagli ebrei sia sefarditi sia ashkenaziti. Ma se i primi l’avrebbero portato con sé dopo l’espulsione dalla penisola iberica, i secondi l’avrebbero dimenticato allontanandosi dalle terre in cui si coltivava la vite, cioè dalla Francia e della valle del Reno. Per tutti, sarà soppiantato dall’arrivo del pomodoro dalle Americhe e dalla sua diffusione e affermazione nel Seicento, restando relegato a poche realtà gastronomiche locali. Tra queste, quella sviluppata nella zona di Pisa, a San Miniato, dove si produce tuttora una salsa speziata indicata ancora con il nome di agresto che fa concorrenza con l’altrove ben più conosciuto aceto balsamico.

Tornando all’uva al naturale, la sua preminenza nell’immaginario religioso è confermata anche da un Midrash secondo il quale sarebbe stato un bel grappolo succoso e non una lucida mela il frutto dell’Albero della Conoscenza che Adamo ed Eva non avrebbero dovuto cogliere. Comunque siano andate le cose, è un fatto che l’uva torna prepotentemente in innumerevoli passi della Bibbia, anche se quasi sempre nel suo legame anche simbolico con il vino. Tra le occorrenze più note, quella riguardante le prime mosse di Noè dopo il Diluvio. Recuperata la terra ferma, per rallegrare il mondo il patriarca avrebbe come prima cosa piantato una vite, guadagnandone in seguito una memorabile ubriacatura… Significato e sacralità del vino meritano un discorso a parte, ma non si può qui sottovalutare l’importanza della vite e del suo frutto proprio in relazione al loro prodotto principe. Se il vino è un elemento imprescindibile del rito religioso, immancabile il Sabato come nelle principali celebrazioni religiose, esso dovrà ovviamente essere kosher, con tutto quello che questo comporta per quanto riguarda la sua produzione, dalla coltivazione dell’uva alla sua raccolta e trasformazione prima in mosto e poi in bevanda alcolica.

Parzialmente collegato all’esigenza di avere a disposizione del vino kosher per santificare le feste è anche il conto in cui era tenuto un altro derivato dell’uva, la cosiddetta uvetta o uva passita. Sarebbe stata la mancanza di frutti freschi per realizzare il vino kosher a costringere alcuni gruppi ebraici a produrre del vino passito, ottenuto da uve essiccate, più disponibili di quelle fresche. Del resto, parliamo qui di uno degli ingredienti più distintivi della cucina ebraica. Dopo il suo arrivo in Europa e Nord Africa dal Sud Est asiatico, dove si suppone fosse nata, l’uva vinifera già quattromila anni fa aveva stimolato i suoi estimatori a trovare un modo per conservarla. Si pensa che la soluzione fosse stata trovata la prima volta nel Levante, grazie all’osservazione forse non così casuale di un fenomeno naturale. Qualcuno più curioso di altri avrà probabilmente provato ad assaggiare gli acini rimasti a seccare sui grappoli non raccolti e ne avrà apprezzato la dolcezza. Più facile da trasportare rispetto alla sua versione fresca e ovviamente meglio conservabile, l’uva secca, chiamata tzimukim in ebraico, ha fatto parte del cibo degli ebrei fin dall’inizio della loro storia. Già nel Pentateuco si cita un uomo che aveva fatto voto di farne astinenza insieme al vino e a qualunque altro prodotto dell’uva. Con la diaspora, poi, l’uvetta sarebbe entrata a far parte di ogni forma della cucina ebraica, in particolare nei cibi legati alle feste. Essenziale anche nella cucina quotidiana sefardita, sarebbe diventata uno degli alimenti esportati dagli ebrei, che mantenevano molti dei vigneti dei paesi musulmani e ne vendevano i prodotti anche in Europa.

Pare che diversi discendenti di conversos e cripto ebrei trasferitisi in America abbiano scoperto le proprie origini anche grazie a ricette di famiglia in cui si faceva un gran uso delle uvette. Insieme ai pinoli, l’uva essiccata è tuttora l’aggiunta classica alle verdure e ai condimenti della cucina ebraica italiana e levantina: la dolcezza della frutta è sempre servita a stemperare il gusto forte dell’aceto aggiunto come conservante nei piatti freddi di Shabbat.

Elemento trasversale della cucina ebraica della diaspora, l’uvetta è onnipresente anche nei piatti rituali a base di riso della tradizione indiana, così come nell’antipasto e spuntino yemenita del sabato chiamato jaaleh. Alcuni egiziani, turchi e yemeniti aggiungono uvetta al charoset di Pesach, mentre in Turchia e nei Balcani viene aggiunta al riso pilaf e nei budini di semola. Passando al nord, con l’emergere del commercio dell’uva passa in Europa dalla Spagna e dal Levante nel Trecento, l’uvetta sarebbe diventata un elemento essenziale anche della cultura gastronomica ashkenazita, dove veniva chiamata rozshinke nello yiddish occidentale e vaymperlekh in quello orientale. Essendo importata, era più costosa rispetto ad altra frutta essiccata come ad esempio le prugne, prodotte localmente, e veniva quindi riservata alle occasioni di festa. Finendo così con l’essere a queste associata. Ecco allora che gli challot di Rosh Hashanah e di Sukkot a partire dal Quattrocento si arricchiscono di uvetta, così come già accadeva al riso di Purim.

È sempre nelle zone del nord in cui c’era minore disponibilità di frutta fresca che si sarebbe iniziato a produrre del vino passito per celebrare le feste, in particolare per Pesach, evitando così di impiegare la produzione cristiana non kosher. Questo stesso escamotage sarebbe poi stato adottato anche dagli ebrei emigrati negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo. Nel libro Jewish Cookery, pubblicato a Philadelphia nel 1871, Esther Levy osservava che il venerdì i suoi correligionari erano soliti fare la benedizione del venerdì con il vino passito, visto che all’epoca non era ancora diffuso in America il vino kosher, mentre nel Mrs Rorer’s New Cook Book del 1902, Sarah Rorer includeva una ricetta per realizzare il vino passito di Pesach.

750 g di uva senza semi

½ cucchiaino di zenzero in polvere

Lavare l’uva con cura, scolarla e asciugarla. Mettere lo zucchero in una casseruola con 500 ml di acqua e lo zenzero, portare a ebollizione a fiamma media e lasciare sobbollire per 5 minuti. Aggiungere metà dell’uva e delle mandorle allo sciroppo e farle cuocere a fiamma medio basso per circa 20-25 minuti, fino a quando gli acini saranno ammorbiditi, poi scolare uva e mandorle con un mestolo forato e suddividerli nei vasi precedentemente sterilizzati.

Versare il resto della frutta nello sciroppo in ebollizione e cuocerli per altri 20-25 minuti. Trasferirli quindi nei vasetti coprendoli con lo sciroppo. Chiudere i vasetti ermeticamente, capovolgerli e lasciarli raffreddare fino a quando si sarà formato il sottovuoto. Servire come accompagnamento di torte e budini.

600 g di uva bianca e rossa

190 g di zucchero 190 ml di olio di semi di girasole 1 limone non trattato 1 bustina di vanillina 1 cucchiaio di lievito in polvere per dolci e sale

Sbattere le uova in una larga ciotola con lo zucchero fino a ottenere un composto gonfio e chiaro. Aggiungere l’olio, la scorza grattugiata di limone, la vanillina e un pizzico di sale. Mescolare e incorporare la farina setacciata con il lievito.

Versare poco più della metà del composto preparato in una teglia foderata con carta da forno bagnata e strizzata, poi distribuirvi metà degli acini d’uva tagliati a metà e privati dei semi.

Coprire con il restante composto e guarnire con il resto degli acini, sempre privati dei semi.

Cuocere in forno già caldo a 170 °C per circa 50-60 minuti, poi controllare la cottura con uno stecchino, che infilato al centro dovrà uscirne asciutto, sfornare e lasciare riposare la torta per almeno 20 minuti prima di sformarla e servirla.

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *